Conversazioni alcoliche

L’ascensore era al suo interno completamente rivestito di tessuto rosso. Non ricordo se scendesse o salisse, di sicuro si muoveva. Ero appoggiato alla parete destra entrando, Eugenio si trovava nell’angolo tra il lato opposto e la porta, accanto ai pulsanti. Dall’esterno giungeva il rumore dei cavi d’acciaio di trazione, un cigolio singhiozzante. Eravamo lì per un motivo qualsiasi, un motivo…o forse senza ragione. Ricordo che nonostante quel suono metallico poco rassicurante, si viaggiava spediti, ma senza comprendere se in su o in giù. “Mmm…sono stanco. Ho studiato tutta la notte il nuovo progetto. Avrei bisogno di riposarmi” gli dissi. Mi sembra che dovessimo presentare il piano di costruzione di un edificio in una zona commerciale della città, per negozi e agenzie private. Mi sembra soltanto però. “Anch’io lo sono”. “Ciò che più mi stanca è la ricerca continua di qualcosa che non ha nessun significato. A cosa servono tutti quei calcoli, se in fondo la costruzione è semplicemente un luogo? Un luogo dove vendere. Non è tanto l’edificio in sé, che potrebbe anche non esistere, ad avere significato, ma i motivi per cui si farà. Questo ripetersi di studi così complessi, precisi, mi nausea ultimamente”. Parole e dialogo sì, li ricordo bene. Eccome se li ricordo. Escono fuori dall’oceano del niente di un passato senza senso; chiarissimi, sia le une che l’altro. Anche i movimenti e i suoni del vano ascensore mi tornano alla mente come fossero la scenografia di un evento fondamentale, da cogliere e conservare solo nella sua essenza, insieme a quei particolari che ne costituiscono l’ossatura. Parole e musica con il loro mondo, cioè. Sì, l’ascensore era l’universo…per noi, in quegli attimi. “Perché farla tanto lunga per stabilire dove scambiarsi delle cose? Perché stabilirlo? Complessità inutili, stupidi studi senza senso. Io non credo più in quello che facciamo. Sai, penso proprio che il nostro sia un lavoro inutile. Un epitaffio alla libertà di esprimersi.” “Ieri sera prima di andare a letto ho detto a mia moglie che mi sarei licenziato, per codesti identici motivi. Siamo arrivati alle stesse conclusioni contemporaneamente” L’ascensore andava, il suo tessuto rosso sembrava ora più accesso, era come essere dentro una fiamma. La nostra pelle riverberava di luce purpurea dall’interno, conformandosi al colore della cabina come se sotto di essa brillasse una lampada. “Appena l’ascensore si fermerà io fuggirò. Me ne andrò lontano da quest’idiozia di mondo. Mi costruirò un sentiero per andare non so dove, per cercare la libertà. O meglio, solo per cercare.” “Sì, sì. Per cercare in santa pace, senza limiti di tempo. Usciremo e correremo giù per le scale, poi fuori in strada, e poi ancora su in collina tra i prati nei boschi…” “No, ma dove vuoi correre. Fuggiremo da fermi, lì sul pianerottolo ancora fumanti di questo maledetto rosso. Ancora macchiati dall’inferno di questo scafandro per anime perse. Non c’è bisogno di grandi paesaggi, niente architetture poetiche, ma sentieri interiori, solo sentieri interiori.” “Sì, sì. Entreremo nelle vie cave del nostro vulcano, ci rotoleremo nel magma della nostra anima, fino ad evaporare con essa.” “Calma, non essere precipitoso. Non sappiamo nemmeno se in noi c’è un dentro; è un’ipotesi, non una certezza. Tenteremo di trovarlo il canale interiore, per seguirlo e capire dove conduce. Tenteremo.” L’ascensore cominciò ad allargarsi dilatando la distanza tra me e il mio amico, si allungò e gonfiò come un palloncino: noi fluttuavamo nel suo vuoto rosso. Era uno spazio di cera fusa vermiglia increspato da onde oliose e vaghe. I nostri corpi si allungarono simili ad ombre crepuscolari, navigavano sinuosamente in quel denso mare. Poi, esplose macchiando tutto di rosso. Ora non so cosa siamo, ma il rumore del nostro pensiero ancora ci tortura.

Da Venerio
Aurelio Visconti
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