Conversazioni alcoliche natalizie

Ci risiamo, è arrivato il Natale. Che fare, scrivere sul cibo? Sui pranzi e sulle usanze? Oppure raccontarvi una storia in assonanza con la ricorrenza? La voglia è poca. Forse non è un bel momento per tutti, e allora passa la tentazione di chiacchierare di vino, di tavola, di storie. Ma si può piegare il mondo mentre lui ci piega: non cadendo nel banale, non facendo finta di niente. Il mondo ci piega sempre con il tempo distruggendo ambizioni, gioie, dolori; e mentre scorre aumenta anche la nostra percezione di esso, aumenta l’attrito tra le nostre maschere non vere e il “vero”.
In tutti gli anni ci sono dei momenti che dovrebbero rappresentare qualcosa di profondo, ma cosa significa “profondo”? Profondo significa rapportare tutto alla morte. Tutto, proprio tutto. Solo così si può essere profondi. Non vuol dire, questo, vivere nel terrore di morire, o diventar lugubri, vuol dire solo diventare umili. Che grande parola è “umiltà”. Lo so, lo so…la morte cambia pelle a seconda che si sia atei, credenti, o agnostici. Sono tre sistemi sbrigativi, queste posizioni della mente umana, per ignorare il “mistero”. Perché si può non aver fede ma il problema morte resta, inesorabile come un qualsiasi altro problema reale. Perché esiste! C’è, come un sasso, come un mal di denti, come un affare andato male, come un’annata cattiva per l’uva o le olive. La morte esiste, ma siccome non possiamo rispondere al suo mistero facciamo finta che non esista; per continuare a fare quelle cose che altrimenti non avrebbe nessun significato fare. E, purtroppo, non hanno nessun significato: ma continuiamo a farle lo stesso, cocciuti come somarelli sardi. Se si ha fede le cose non cambiano rispetto a ciò che facciamo tutti i giorni: sono ugualmente inutili, infatti per chi ha fede il significato non è “qui”, ma altrove. Beh, allora che facciamo, ci uccidiamo e questione risolta? Il problema è che se anche ci si uccide la questione non cambia, la morte resta comunque un mistero. Perché la risposta noi la vogliamo da vivi, noi siamo vivi anche quando parliamo della morte, lo siamo comunque. Se ci uccidiamo non risolviamo il mistero. E’ possibile risolverlo? La scienza dice che quando un essere vivente muore succede “questo” e “questo”, e descrive una serie di eventi chimici e fisici dovuti a cause varie. Ma la scienza descrive solamente; anche quando avanza nella conoscenza non fa altro che descrivere. Capisco bene lo sconcerto che può prendere chi mi legge; ma voi credete che sia realmente possibile parlare della morte da vivi? Per farlo bisognerebbe morire da vivi, bisognerebbe essere contemporaneamente morti e vivi. Questo secondo logica. L’unica cosa certa di fronte a essa è che non possiamo conoscerla. Allora hanno ragione gli agnostici? Non lo so chi ha ragione o torto, non è questo il problema, perché comunque sia, qualunque posizione si abbia di fronte a essa, essa c’è. E non è una questioncina da poco, è l’unica questione. Tutto il resto è aria fritta. Ma allora? Allora siate umili, abbiate il coraggio di riconoscere la vostra impotenza di fronte a questo blocco di granito grigio che si chiama “fine”. Vedete, prima di scrivere queste righe ho calcolato il rischio di cadere in contraddizione: da quanto dico sembrerebbe che io sia il contrario preciso dell’umiltà. Perché mi pongo – così vi sembrerà, credo – sul pulpito del predicatore che sa come stanno le cose. No. Non so come stanno le cose, è solo che risiamo a Natale. Per chi ha fede poco importa parlare di cibo perché nasce Gesù, e vigilia, cena o pranzo, e quello che mangiamo, vengono trascesi nella loro sostanza; per chi non la ha è, comunque, la festa più importante e la tavola è solo in funzione di essa, per ciò che rappresenta per ognuno di noi, e di un po’ d’allegria. E se il Natale cristiano nasce sulla festa antica dedicata alla fine del tempo di un sole debole e lontano, è perché il desiderio di calore e di luce nell’uomo è sempre stato il bisogno più forte. E cos’è una vita senza la luce e il calore degli affetti, senza vera empatia? E’ solo disperazione. Il Natale è il canto dell’anima alla luce, all’amore. La figura del Cristo si imbeve, oltre che di questo, della speranza che qualcuno ci ami così tanto da essere disposto a incarnarsi in mezzo a noi per salvarci; solo un Dio amorevole e pietoso può arrivare al punto di patire insieme a noi le pene dei giorni che dobbiamo percorrere fino alla loro conclusione; che non conosciamo e che non sappiamo cosa nasconda con certezza. L’augurio che vi faccio è di avere sempre speranza, di vivere questa meravigliosa festa almeno insieme a una persona che amate e che vi ama. Mangiate in allegria, seguendo tradizione e usanze familiari, tutto il resto non conta. E se conoscete qualcuno che lo dovrà passare da solo invitatelo con grazia e gioia, accetterà di sicuro se lo farete con il cuore. Chi ha fede l’abbia e chi non l’ha si tenga stretto il suo non averla, chi non lo sa se l’ha o no, ami il suo dubbio; restate quello che siete ma almeno provate ad amare chi vi è vicino. Il tentarci non è cosa da poco, e se non ci riuscite poco importa, almeno ci avrete provato. Pensate il meno possibile in questo giorno, nuotate in mezzo al pelago del cuore come se in esso il sangue fosse amore. Lasciatevi andare, non contrastate, con una mente troppo critica, la voglia di gaia compagnia, che almeno in questa occasione potrà farvi dimenticare ciò che invece non riusciamo a evitare ogni giorno. Ogni giorno lo passiamo su binari assurdi, forgiati con il metallo della paura, di una prigione di cui non vogliamo vedere le sbarre. Per Natale, vi auguro di deragliare!

Da Venerio
Aurelio Visconti
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