La leggendaria storia di un antico manoscritto ritrovato: il Codice Amiatino

Salterio_diurno_del_XVII_secoloNel Quattrocento Papa Pio II la descriveva così nei suoi Commentarii: «La natura vi formò una valletta di circa otto stadi, limitata da aspre rupi. Gli antichi vi costruirono un borgo ben difeso da una fossa piena d’acqua corrente». Siamo ad Abbadia San Salvatore, in linea d’aria il centro più vicino alla vetta del Monte Amiata, ed entrando in paese il primo impatto che esso lascia negli occhi del visitatore è quello di un paese moderno, dai larghi viali alberati, ma la prima impressione, si sa, è anche quella che spesso può trarre un po’ in inganno: le cose infatti cambieranno quando, attraverso il Borgo medievale, si raggiungerà il cuore dell’abitato, vale a dire il centro sorto attorno alla famosa Abbazia, uno dei luoghi più suggestivi della Toscana medievale.

La bella Abbadia San Salvatore è un centro antichissimo, nato intorno alla famosa Abbazia di San Salvatore dalla quale il paese prende il nome e con la quale ha sempre vissuto in simbiosi. Le origini della famosa Chiesa sono da ricercare nei secoli: fu fondata nel 743, secondo la leggenda, dal re longobardo Ratchis nel luogo dove gli si manifestò Cristo sopra un abete bianco; fu poi ricostruita intorno al 1035 in forma romanica, con una facciata alta e stretta e due campanili, di cui uno rimasto incompiuto, e visse il suo momento di maggior splendore dal X al XII secolo, quando i pellegrini percorrevano numerosi la Via Francigena. L’attuale aspetto della chiesa è dovuto ai restauri effettuati negli anni Trenta e al suo interno si possono ammirare un Crocifisso ligneo policromato della fine del XII secolo e due opere seicentesche di Francesco Nasini: la “Leggenda del duca Ratchis” e il “Martirio di San Bartolomeo”. Anche se, in tutta sincerità, la parte più suggestiva si trova nell’area  sottostante all’abbazia: la cripta. Forse un tempo la chiesa era tutta qui, tra le 35 colonne che sorreggono il soffitto a volte in pietra: sarà la debole penombra, sarà il mistero che avvolge il luogo o la particolarità dei capitelli, ognuno diverso dall’altro, a dare un che di mistico, ma scendere nella cripta assomiglia ad un piccolo viaggio indietro nel medioevo, tra emozioni e rievocazioni enigmatiche.

Sempre così strettamente legata alla storia del paese amiatino e sempre così presente nelle vicende storiche, che anche questa volta lo sfondo delle nostre storie è lei, quell’abbazia che ha ospitato per quasi mille anni uno dei più importanti documenti linguistici a noi pervenuti: il Codex Amiatinus o Bibbia Amiatina, la più antica copia manoscritta conservata integralmente della Bibbia nella sua versione latina redatta da san Girolamo, di cui si ritiene sia anche la copia più fedele; testimonianza della sua immensa ricchezza sono la scelta, rara per l’epoca in cui ci troviamo, di compendiare in un unico volume l’edizione completa della Bibbia a cui si aggiungono le affascinanti dimensioni quasi atlantiche del formato: si pensi, per capire, che pare fossero state utilizzate per l’esecuzione dell’opera le pelli di almeno cinquecento animali.

L’incipit della nostra storia si perde però nei secoli. Il grande storico anglosassone Beda il Venerabile scrive che ripetutamente l’abate Ceolfried e i suoi fratelli, gli abati Benedict Biscop e Sigfrid delle Abbazie gemelle di Jarrow-Wearmouth, andarono e tornarono da Roma più volte in quell’epoca remota passando per la strada più diretta giungendo dall’Inghilterra, che nel tratto francese fu essenzialmente la via percorsa dagli evangelizzatori sassoni chiamata anche lo “chemin des Anglais” e che nel tratto italiano passerà alla storia con il nome di Via Romea, Via Francesca o Via Francigena. L’abate Ceolfried (Ceolfrudus Anglicorum) in uno di questi suoi viaggi verso Roma acquistò per il suo monastero in Inghilterra una delle prime copie al mondo, scritte in latino, del sacro libro della Bibbia, trascritta dal monaco Cassiodoro e trasferito come la maggior parte dei codici della biblioteca del Vivarium nelle raccolte Lateranensi al momento della morte di Cassiodoro: ed è da questo momento che comincerà uno dei viaggi più mistici della storia che regalerà alla Toscana uno dei tesori più preziosi mai custoditi e nel quale vale la pena di avventurarsi.

Il grande monaco Cassiodoro, infatti, insieme ad altri monaci amanuensi aveva fondato a Vivarium, vicino a Squillace, in Calabria, suo paese natale, un monastero ed una biblioteca dove egli si era ritirato dopo una vita di intensa attività politica e che aveva lo scopo di salvare i fondamenti della letteratura e della scienza latina e greca dalle immense devastazioni della guerra Gotica, che attanagliava i territori che fino a quel momento erano appartenuti all’Impero Romano d’Occidente: nel Monastero del Vivarium dunque furono salvate opere della Sacra Scrittura ma anche 22 libri dell’Antichità Giudaica, centinaia di scritti e papiri sulla scienza e la cosmografia.

Tra questi immensi tesori i monaci amanuensi di Cassiodoro crearono una copia della antica Bibbia e la chiamarono, per la sua ingente mole, Codex Grandior. Questa antica copia della Bibbia, insieme ad altri due esemplari manoscritti da Cassiodoro e dai suoi monaci, rappresenta la prima copia amanuense degli antichi papiri greci ed ebraici, racchiusa in un unico compendio, della traduzione attuata in latino da San Girolamo. Le istruzioni di Cassiodoro ai suoi scelti traduttori e grammatici amanuensi era di non aver fretta nel tradurre le parole riportate ma rispettarne e conservarne le peculiarità grammaticali, le metafore e la composizione delle frasi: l’Abate considerava, infatti, il testo della Bibbia di San Girolamo ispirata dal divino e di conseguenza la sua traduzione non doveva in alcun modo essere soggetta a corruzione dovuta ad una errata e frettolosa traduzione.

Poco dopo la morte di Cassiodoro probabilmente avvenuta verso il 583 d.c. la biblioteca del Vivarium venne trasferita in gran parte a Roma alla biblioteca del Laterano e lì il monaco Abate inglese Ceolfrid vide e comprò il Codex Grandior per portarlo nel regno di Northumbria, l’attuale Inghilterra, dove a sua volta questo antico codice oggi disperso venne ricopiato in più esemplari, forse 3, due dei quali destinati all’Abbazia di Wearmouth e Jarrow dei quali era fondatore. Una copia invece doveva essere riportata a Roma come regalo per il Papa Gregorio II: così, i monaci di Wearmouth e Jarrow partirono in circa 80 quel lontano 4 giugno del 716 alla voltà dell’eterna Roma, ma l’Abate Ceolfrid, già settantatrenne il 25 Settembre morì a Lengres. Il codice che doveva essere donato al Papa proseguì però il suo viaggio con la comitiva che lo trasportava per Roma sulla Via Francigena, ma a Roma dal Papa Gregorio II questo grande ed importante manoscritto non arrivò mai.

Il suo tragitto sembra infatti fermarsi in una località chiamata “Callemala” nella Valle del fiume Paglia alla pendice del monte di Radicofani da dove passava un’antica strada basolata di epoca romana che raggiungeva il Monte Amiata. Qua, in questi luoghi oggi quasi avvolti dai boschi, il corteo dei monaci partiti dall’Inghilterra pare fosse stato costretto a lasciare il famoso codice anche se ne rimangono ancora oscure le motivazioni.

Il Codice riapparve, per ragioni sconosciute, solo un secolo dopo, tra la fine del IX secolo e gli inizi del X, presso l’Abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata, costruita nel contempo, quando  il monastero fu retto da quattro abati con il nome di Pietro: si sa che però la lingua si adatta, si trasforma e assorbe tutto ciò che la circonda e così quindi si spiega come all’inizio della Bibbia le parole “Ceol fridus Anglorum”, chiaro riferimento a Ceolfrid, o Ceolfrido, l’abate inglese che acquistò il Codex Grandior e che commissionò le sue copie, vennero sostituite con “Petrus Longobardorum”, in relazione ai quattro abati amiatini, testimonianza dunque della permanenza del codice sul Monte Amiata. Il codice dimorò qui, custodito, per circa 1000 anni acquistando il nome di Codex Amiatinus: il codice rimase chiuso nell’armadio delle reliquie del monastero fino alla soppressione leopoldina del 1782, salvo una breve permanenza a Roma (1587-1591) dove fornì la base dell’edizione sisto-clementina della Bibbia. Nel 1785 fu assegnato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze dove i Medici prima e i Lorena poi avevano concentrato le più rilevanti testimonianze librarie della cultura occidentale.

La struttura imponente del codice, la veneranda età, il pregio delle grandi miniature hanno imposto una rigorosa conservazione del codice, e ancora oggi si presenta in ottime condizioni. Queste stesse caratteristiche hanno però reso difficili la consultazione, l’esposizione e la realizzazione di una copia fedele. Solo l’evoluzione delle tecniche e la collaborazione di diversi soggetti pubblici e privati hanno consentito di offrire una serie di “copie” della Bibbia Amiatina che rispondono alle varie esigenze della conoscenza.

In ogni caso le vicende del Codice Amiatino resteranno una delle pietre più preziose della storia nostrana, conferendo al paese di Abbadia San Salvatore un’aurea di emozionante mistero e fascino: solo sapere che secoli fa, per quelle strade sperdute, non sappiamo come, abbia transitato un documento di così grande valore artistico, letterario e culturale rende la già magica atmosfera del Monte Amiata ancora più nobile.

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1 commento a “La leggendaria storia di un antico manoscritto ritrovato: il Codice Amiatino”


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