Campagna toscana

castell'azzaraPRIMO CAPITOLO

 

All’inizio era un pensiero innocente, un trastullo per combattere la noia, tra un gioco e l’altro, tra una scorribanda nei campi e una corsa nei vicoli del paese.

Intorno a un campanile, su un colle, poche case tra ulivi e cipressi.

Rimpiango l’orizzonte; la sua linea lontana sembrava vicina, quasi a portata di mano, talmente chiaro e vivido era quel mostrarsi rapido e calmo di campagna toscana.

Ma piano, di nascosto, l’idea della morte mi occupò un angolo preciso dell’anima: era lì, sapevo dove trovarla con certezza, ci giocavo, la riponevo e prendevo con naturalezza simulata…come un giocattolo divenne preziosa.

E ne fui geloso!

Dal cielo celeste, sopra i tetti, d’estate il grido delle rondini aveva la forza di un richiamo.

Con i pantaloncini corti e i ginocchi marcati in tutte le stagioni, magro finito, con l’argento vivo addosso, viaggiavo come un canarino fuori dalla gabbia e vi rientravo a mio agio, cresciuto a pane, olio, e pomodoro.

Vista dall’alto della finestra di camera mia la strada che conduceva al paese sembrava stampata, tanto precisi ne erano i contorni: uno stretto fiume di curve, dove d’agosto scorreva il sole.

La luce colava intorno su tutta la campagna incollando la polvere all’aria, e respirare era come bere la linfa calda di quel mondo.

Su quella strada un giorno Brunero, tornando dal lavoro, mise la testa tra il cassone della motrice e il rimorchio di un camion.

La vespa che guidava si posò come una farfalla sull’asfalto vicino al suo corpo.

Bene ricordo di lui, adagiato come un manichino nella bara, il viso fasciato, gonfio, deforme.

Una maschera vuota lasciata lì per le esequie paesane.

Mi sembrò di vederlo, appoggiato al legno del feretro, osservare se stesso e poi gli amici e i parenti.

Fu un attimo.

E noi bambini intorno con gli occhi ancor pieni del verde dei prati, guardavamo, tenuti lontani dai grandi.

A mio padre, maestro, era stato chiesto di avvisare i familiari.

All’ora di cena con il sole che guardava, basso, fermo sull’orizzonte sopra i campi deserti, suonò a quella porta.

Venne ad aprire la moglie; un urlo straziato risuonò come un volo d’eco sulla tovaglia in cucina, sui piatti, sui mobili, sulle foto di famiglia, sui divani e le poltrone, sfondò la porta di camera ed entrò furibondo tra gli oggetti di sempre, arruffò le coperte del letto e spalancò le finestre supplicando il paese.

Poi, come un lampo, penetrò nella testa di mio padre e lasciando per sempre la tavola apparecchiata con la minestra ancora calda, pronta per esser mangiata, si dissolse nel suo volto già simile a niente.

Tutto questo di ritorno lo raccontò a mia madre curiosa.

Ebbi l’impressione che il suo sguardo ridesse come quello di un attore.

Io ascoltavo e fingevo di esser bambino, giocando davanti alla porta d’ingresso, mentre aspettavo che mi cercassero gli amici…come tutte le notti d’estate.

Poi mi chiamarono fuori.

Non ricordo il mese in cui questo accadeva, ma le lucciole si.

C’era odore di grano nell’aria e una lampada oscillava spinta da un soffio di vento appesa ad un piatto metallico sopra la via, illuminando a tratti la strada.

Una macchia di luce che si spostava ora in un punto ora in un altro.

Come un riflettore ogni tanto si fermava sull’immagine di donne sedute. Accanto, sulle pareti scure delle case, le forme nere delle porte spalancate inspiravano finalmente aria fresca.

Avevo tolto la morte dal suo angolo e con lei, ridendo, mi avviai con gli amici.

Proprio appena fuori dal borgo il paese aveva deposto in un piccolo cimitero, come fa un uccello nel nido con le uova, le sue anime perse. Lì andammo.

In quella stagione i nostri genitori ci lasciavano liberi di notte come animali selvatici, mentre loro vegliavano al fresco.

E spesso, allora, giocavamo alle paure intorno al camposanto.

Piccoli addomi fosforescenti di lucciole ci scortavano, illuminando i nostri timorosi sussurri, mentre costeggiavamo, tra le sagome nere di immensi cipressi, le mura di quel minuscolo villaggio di morti.

Arrivati di fronte al cancello, con i nasi ed i menti infilati tra le sbarre e lo sguardo tra le foto dei defunti e i lumini, ci stringevamo l’uno all’altro per farci coraggio.

Io sentivo i battiti del cuore dei miei compagni, mentre il mio veniva cullato dalle parole dell’amica segreta .

Le avevo dato un nome, per trovarla meglio nel cassetto del mio spirito bambino: Maria.

Mi sembrò di vedere tra le tombe, mentre cercava il suo posto ancora da scavare, Brunero.

L’immagine del suo corpo disteso in chiesa si sovrapponeva a quella di lui ancor vivo, mentre giocava a carte al circolo.

Le luci delle lapidi, le ombre lunari dei cipressi, il fluttuare leggero ed incerto delle lucciole, i profumi intensi di una natura estiva che di notte respirava liberata dall’arsura del giorno, e l’ansimare corto e affannato dei miei amici, si stamparono contemporaneamente sulla pellicola del mio animo.

Insieme a Maria guardavo i fotogrammi di quel film.

Ancor oggi ogni tanto lo faccio.

“Vedi – mi disse la sua voce – sei vivo, e di là dal cancello ci son piccoli fuochi fatui che giocano a rincorrersi. Si divertono, come voi, a guardare. Ascolta i suoni di questa notte e non temere. Come in un quadro le forme ed i colori stanno dentro la cornice così il mondo vi contiene.

La morte osserva la vita mentre le si avvicina.”

Io tutti i giorni vedevo morire.

Mentre ai polli si tirava il collo sull’uscio di cucina, i gatti divoravano le lucertole.

Una piccola mosca colpita su una macchia di sugo, un ragno schiacciato da un piede e Brunero, che lasciò la minestra già pronta nel piatto.

Non capivo perché i grandi fossero indifferenti allo scomparire della vita e preoccupati solo dall’affanno del suo transitare.

Mi vergognavo a parlare della morte con gli adulti, ed avevo paura di farlo con i miei coetanei.

Suonava strano, fastidioso, in quel presepio di paese, dove tutto era così vicino e controllabile e dove l’esistenza era come un vestitino fatto dalla mamma, che un bimbo di otto anni si svestisse dei suoi panni e mostrasse il suo stupore.

La meraviglia era la mia condizione.

Nemmeno lo sfiorò, Brunero, l’idea della fine quando imboccò la strada per tornare a casa. Era una vita che non ci pensava. Del resto a cosa gli sarebbe servito.

Dicevano: “Tutti dobbiamo morire prima o poi… non c’è niente da fare.”

Io invece lo vedevo Brunero, e mentre guidava la vespa pensava alla cena e alla moglie.

All’altro capo della strada c’era il camion e fra di loro alberi, case, fiori, animali, altre persone e profumi e colori.

 

Un acquario, io vedevo un acquario.

Ma al posto dell’acqua c’era l’aria, e la campagna, e due pesci si venivano incontro.

Brunero ed il camion.

Due punti si avvicinavano, l’uno all’insaputa dell’altro, io li vedevo sempre più prossimi finché si toccarono divenendo un’unica cosa.

Nella strada, nell’acquario. Un’unica cosa forse da sempre.

Da Venerio
Aurelio Visconti
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