Conversazioni alcoliche

“Non potete uscire dal teatro. Sappiamo con certezza che fuori tutto è cambiato. In un attimo il mondo come lo conoscevamo è scomparso; creature orribili e carnivore si aggirano ovunque. Noi abbiamo sigillato porte e finestre, nessuno potrà andarsene” disse un incaricato dal direttore. Il primo atto della commedia era da poco finito; il sipario calato si era aperto all’improvviso permettendo all’uomo di mostrarsi pronunciando queste poche parole. I più pensarono ad un coup de théatre, ad una trovata dell’autore per incuriosire gli spettatori; ed in effetti molti considerarono quell’uscita parte integrante della rappresentazione. Il lavoro teatrale già da settimane in programmazione, riscuotendo sempre più successo, aveva attirato quella sera una moltitudine di spettatori, che riempivano lo stabile in ogni ordine di posti. Platea, palchi, loggione, tutto brulicava di pubblico, tanto che la compagnia e la direzione avevano fino ad allora gongolato di gioia per il ricco introito serale. Dopo una ventina di minuti tutti si rimisero al loro posto per l’inizio del secondo atto. Ma niente, i minuti passavano e il palcoscenico restava senza vita. Tutto taceva. Fu in quel momento che si udirono distinte grida venire da fuori, grida e insieme un vocio indistinto, quasi un fragore di flutti che frangevano contro scogli. I volti si fecero seri ed attenti, speravano che quell’uomo tornasse alla ribalta e dicesse che l’intermezzo bizzarro era stato studiato per ravvivare ancor più lo spettacolo. E in effetti dopo un po’ riapparve. Entrò in scena insieme ad un gruppo di persone che sussurravano tra loro, veloci e incomprensibili: “Signori, io so che non potrete credere alle mie parole, ma non posso non informarvi che per uno strano scherzo del destino, saremo costretti qui dentro per molto. Forse per sempre. Le strade, le campagne e il mondo intero, come li conoscevamo, non esistono più. Fuori di qui, da quanto ci risulta, solo sangue e morte” disse. I signori con lui avanzarono verso la platea, lasciando l’uomo nella penombra. Si fece ancor più avanti uno di essi, alto e distinto, impassibile così parlò: “Sono l’autore della commedia, sono colui che più di tutti è toccato da quanto successo. Vi garantisco che in tutto questo non c’è nulla di falso. Purtroppo dovremo sopportarci.” “Ma via, non è possibile. Non ci credo. Fateci uscire” disse urlando un signore alzandosi dalla sua poltroncina in platea. Fece l’atto di andarsene ma si fermò quando un ruggito, quasi un boato, venne da fuori scuotendo i muri delle pareti. Tutti erano attoniti. “Beh, signori cari, io sono molto colto e ricco, sono un uomo autorevole, deputato in parlamento; io sono, come molti di voi sanno, troppo importante per restare qui. Ho il diritto, fine del mondo o meno, ad un trattamento di riguardo. Chi deve faccia in modo di farmi uscire o ne pagherà tutte le conseguenze. Non si scherza con l’autorità…” appena finito di pronunciare quest’ultima parola l’uomo fu zittito dal fragore di vetri rotti: da una finestra in alto, un enorme moscone, grande come un bue tentava di introdursi nella sala. Rimase incastrato e i commessi armati di asce e bastoni corsero subito su di lui usando scale antincendio: lo fecero a pezzi e poi chiusero con assi spesse di legno l’apertura. Una bellissima signora, con un vestito di seta rossa, dal carnato candido come un angelo svenne accasciandosi sul suo compagno seduto al suo fianco in un palchetto centrale. Questo si alzò come rapito da un incubo e con il volto pallido e le labbra tremanti cominciò: “Voi che qui avete potere di farlo, voi che io non conosco – e intanto con un braccio sorreggeva la testa reclinata della sua amata -, voi che sapete come è nato questo scherzo nefasto, abbiate pietà di un amore appena nato. Io voglio vivere questo amore, e anche lei lo vuole – accarezzò i capelli della donna -, non può finire così. Che senso ha amare rinchiusi in una gabbia. E’ crudele, cattivo. Uno spreco assurdo. Meglio morire allora”. Uno spettatore dal loggione affacciandosi dal parapetto, sporgendosi cominciò a gesticolare dicendo: “Compro tutto. Compro il teatro e la fine del mondo. Io posso, sono ricco. Io posso con i miei soldi far quello che voglio – cominciò allora a gettare tra i volti rivolti verso di lui banconote -. Io ho sempre comprato quello che ho voluto, come potete pensare che finisca la mia esistenza così. Uscirò di qui, che il mondo e la sua fine vadano al diavolo. Io non sono come voi”. Da fuori giunse rumore di mura abbattute, poi cannonate e ululati strazianti, pianto di bimbi, e dopo anche odore acre di fumo penetrò dentro, tra pareti e poltrone. “Sono un uomo di fede, Dio non può abbandonarci; Egli, se pregheremo, farà finire tutto questo. Ma ci vuol fede, fede vera, vera come la mia. Su, inginocchiamoci e lodiamo il Signore. Cantiamo la Sua gloria. Che venga pulito il mondo dal male. Noi qui dentro siamo i prescelti, noi faremo rinascere, quando Lui avrà finito, un mondo migliore. Preghiamo” gridò, un piccoletto, insignificante spettatore. Nessuno lo fece. Tutti lo ignorarono. Ora un trambusto infernale regnava per le sale e i corridoi del teatro: si cercava una via di fuga, o si vagava senza uno scopo, una meta. Ci si urtava, si cadeva, ci si calpestava, ci si picchiava a morte senza un motivo. Sul palcoscenico deserto salì un bambino dal volto di vecchio; pose una sedia proprio al suo centro e si sedette. Poi lanciò un urlo acuto e tremendo, costringendo tutti a fermarsi e ad ascoltarlo: “Ho un morbo cattivo che mi fa invecchiare prima del tempo. Il mio corpo non ha rispetto della mia anima. Io vivo rinchiuso in questo guscio estraneo, maligno e disubbidiente. Lo supplico di guarire da anni, ma invano. Tempo ne ho avuto molto per riflettere sulla mia condizione. La mia è come la vostra. Solo che voi non ve ne accorgete. Voi siete impotenti come me quando chiedete al corpo di ubbidirvi: lui invecchia anche se lo supplicate di non farlo, lui soffre facendovi soffrire, si ammala e muore nonostante il vostro desiderio di salute e immortalità. E voi, nonostante a volte lo neghiate con spocchia saccente, non siete lui. Perché voi non avete nessun potere su lui. Lui è altro da voi, ma voi siete condannati al suo interno. Ah, ah, ah, siete ridicoli e grotteschi, con le vostre paure. Adesso siamo avvolti in tre gusci orrendi: uno è il nostro corpo, uno questo palazzo, e l’altro lo percepiamo attraverso queste pareti. Il primo lo subiamo e non è opera nostra; il secondo è reso orrendo dalle nostre paure e dalla nostra impotenza; il terzo, fuori di qui, lo possiamo solo immaginare attraverso rumori e le parole di chi dice di sapere cosa accade là. Dove sta la nostra grandezza? Che senso ha il pensare di “avere” o “essere”, se niente è sotto il nostro controllo. Cosa volete che sia la fine del mondo, del vostro mondo, se esso non è mai esistito. Non c’è nessun luogo in cui l’uomo ha potere e controllo. Beh, si, lo so, per qualche secondo sembra di averlo. Quando ci dicono che abbiamo ragione, quando guadagniamo e compriamo, quando ci amano, quando conosciamo con scienza e sapienza. Son tutte cose fasulle, che nascono dalla nostra dipendenza da chi o da cosa non sappiamo né mai sapremo. Perché dunque avete paura? Questa che ora ci sembra tanto orribile e crudele sorte, è quella che noi sempre viviamo.” poi tacque. Ricominciarono, allora, trambusto e urla.

Da Venerio
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