Conversazioni alcoliche

Se ci fossimo troppo accostati al pendio saremmo potuti cadere; restammo distanti, in attesa del passaggio di qualcuno. C’era nebbia, poco o niente si intravedeva del chiarore lunare. La strada ci aveva tradito a dieci chilometri dal villaggio, seccando il poco carburante nel serbatoio. Ora la macchina era l’unico rifugio. L’idea era nata qualche tempo prima nella mia mente, era nata senza un perché preciso, forse la noia o forse il desiderio di mettermi in gioco con qualcosa di assolutamente improbabile. Il colore dell’auto era morto sotto quella cappa densa e il rosso sgargiante della carrozzeria era divenuto solo un’ipotesi. Peccato. Una nota cromatica così viva avrebbe rinvigorito un animo deluso, affranto dal fallimento, scacciando l’oscurità, anche se presente fosse stato solo il suo ricordo fatto d’ombra. Come diavolo avevamo fatto a non ricordarci di metter benzina? Tutto studiato nei minimi particolari, ma questo, il pomeriggio che partimmo diretti al paese, ce lo dimenticammo. Se il diavolo insegna a fare le pentole ma non i coperchi, da lui certamente noi avevamo imparato. Nessun rimorso per quanto fatto, eppure non era stato uno scherzo agire con fredda determinazione; colpire senza pietà non è cosa da poco quando si è adulti con una coscienza formata. Mai prima di allora tanto ci eravamo spinti lontano. Ma nessun rimorso affiorava. Il bello era che nemmeno ci meravigliava questa inaspettata situazione d’animo: perché prima parlando tra noi avevamo messo in conto che una sensazione di disagio avrebbe potuto disturbarci l’anima. E adesso, che niente ci accadeva dentro, neppure un riflesso di pentimento appariva. Che fossimo mostri? Uno si sedette su un sasso in silenzio, gli altri gli si misero intorno; io invece mi avviai lungo un sentiero tra gli alberi del bosco. Camminavo non pensando in mezzo a una massa umida d’aria, che si spalmava fuori e dentro di me; bagnava i pensieri spengendo ogni forma di dubbio, annacquando il mio sangue d’uomo consapevole di quanto compiuto. Ma era davvero successo? Mentre mi allontanavo nessuno di loro mi chiamò: ne sono certo; almeno così mi sembra di ricordare. Adesso, che tempo è passato, ricordo anche che alcuni, vicini a quel sasso, si sdraiarono bagnandosi; ma sembrava – così almeno mi pare – che nulla gli importasse, e si lasciassero inzuppare vestiti e pelle volentieri, abbandonandosi all’abbraccio di quella terra. Non di tutta ma solo di quella, di quella che era stata testimone delle nostre terribili azioni. Tutti eravamo ugualmente colpevoli; nessuno poteva dire di essere stato costretto perché tra di noi non c’erano né stupidi né codardi. Eravamo intelligenti, perfettamente realizzati, educati e gentili, eppure… Il pendio introduceva ad un oscuro, profondo abisso; bisognava stare attenti, restarne lontani se non si voleva finirci dentro. Qualcuno provò ad accendere un fuoco; subito gli fu impedito per paura che ci scoprissero: di sicuro avevano cominciato a cercarci con cani e persone del posto pratiche dei luoghi. Bisognava che il caso ci offrisse un arrivo ignaro totalmente di quanto era successo al villaggio: persone che venissero dalla parte opposta rispetto a quella da cui noi eravamo giunti, e che facilmente fosse possibile convincerle ad aiutarci. Mi fermai sotto gli alberi, riflettendo su cosa fosse meglio fare; credevo difficile che potesse farsi vivo un estraneo in quella notte buia e umida: chi era a casa doveva proprio avere gravi motivi per mettersi in viaggio. E gravi motivi potevano esserci solo per chi sapesse delle nostre azioni: solo per chi avesse voluto trovarci. Mi sembrò di sentire il rumore di una macchina in lontananza, allora senza ansia mi avviai verso i compagni. Un vento improvviso e forte si alzò muovendo le chiome delle piante intorno, ma la foschia sembrava impassibile a tutto quel soffiare, rimase fitta e spessa e non se ne andò. Era un bene, almeno sarebbe stato più complicato individuarci, ed anche i cani avrebbero trovato con più difficoltà le nostre tracce. Veniva infatti quel vento dal villaggio, per cui i cani se lo sarebbero trovato alle spalle; avrebbe spazzato via il nostro odore. Ci rinchiudemmo dentro la macchina sperando che servisse a qualcosa. Non resistemmo a lungo, eravamo in troppi e prima uno, poi un altro ci ritrovammo di nuovo tutti fuori. Si sentì abbaiare, ma non riuscimmo a capire da quanto lontano arrivasse quella voce di cane; transitò come un rumore irreale intorno, poi si perse cadendo nel baratro che la inghiottì in un attimo. Il vento era sempre più violento ma non riusciva a portarsi via nemmeno un granello di nebbia. I nostri capelli si muovevano insieme alle fronde dei rami, mi parve quasi, per un attimo, che comunicassero all’insaputa di noi. Era possibile che ci compiangessero, o forse parlavano solo del vento dispettoso. Ci mettemmo ad ascoltare con più attenzione cercando di sconfiggere il rumore della natura, dovevamo urlare per parlarci anche se ci trovavamo a non più di un metro l’uno dall’altro. Non avevamo più il senso del tempo. Gli sportelli dell’auto rimasero aperti e veloce l’ombra della notte la riempì. Dio, perché lo abbiamo fatto? Perché non ci hai fermato? Pensieri che facevo velocemente, io come anche gli altri; velocemente pensavamo alla miseria delle nostre anime. Un lampeggiare di luci trasparì da qualche parte, indistinto e rapido si affacciò dietro quella coltre padrona dell’aria notturna: come quando all’orizzonte si intravedono lampi di un temporale che mai arriverà sopra di noi. Cosa avrei raccontato a casa, con che coraggio avrei guardato negli occhi i miei figli, mia moglie? Mi venne in mente che sarei potuto fuggire e non tornare mai più. Meglio, si molto meglio, fuggire ai confini del mondo piuttosto che dover dare spiegazioni. Ma poi perché spiegare? Potevo tacere, tenermi il segreto dentro per tutta la vita: e ogni giorno far finta di essere un altro. Ci eravamo spinti, intanto, senza rendercene conto fin sull’orlo del nero crepaccio. Ci disponemmo allora in fila uno accanto all’altro, e insieme ci sporgemmo, piegando verso il basso il collo, con il mento che quasi toccava lo sterno, verso quella voragine. Il cielo, la notte, la terra, l’abisso, e noi uomini lì presenti secondo volere del fato. Attendevamo non la condanna, non la cattura e nemmeno il castigo; attendevamo e basta. Fu allora che in tutti si insinuò un gelido respiro; un rantolo di noia uscito da una gola che non era la nostra, creato dall’oscurità della notte; fatto della sua stessa materia. Sbucò all’improvviso dalla curva a cinquanta metri da noi un pulmino, era giunto dalla parte opposta al paese e quando fu alla nostra altezza, si fermò. Scesero alcune persone che con fatica per il forte vento contrario ci raggiunsero. Urlavano per farsi sentire ma noi non capivamo niente di quello che dicevano; invece di avvicinarci per sentire meglio facemmo qualche passo indietro per la paura che sapessero tutto di noi. Loro continuavano ad avanzare senza che a nessuno di noi venisse in mente di avvicinarglisi; fermi come impietriti, tuttavia senza troppa angoscia, li attendevamo, sperando che fossero loro a chiederci di andare con loro. Infatti era stata tanta la sorpresa di esserceli visti arrivare così dal nulla, che ancora non riuscivamo ad organizzarci in spiegazioni plausibili. Facemmo di nuovo dei passi all’indietro e tanto bastò a farci cadere nello strapiombo: cademmo uno per uno senza un grido, senza un cenno. I nuovi arrivati ci videro scomparire nella notte e rimasero lì da soli senza un perché e senza avere nemmeno una vaga idea di chi avessero avuto di fronte. Al villaggio ancora nessuno aveva scoperto niente e tutti dormivano.

Da Venerio
Aurelio Visconti
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