Un personaggio storico che ha fatto parlare di sé dalla Maremma alla Val d’Orcia: Ghino di Tacco

torre superstite secolo X radicofani

Ma chi era Ghino di Tacco? Originario di Fratta, una località vicina all’odierna Sinalunga e appartenente ad una nobile famiglia del XIII secolo, era dedito, da ragazzo, al brigantaggio insieme al padre il conte Tacco di Ugolino, allo zio Ghino di Ugolino e al fratello Turino, una combriccola conosciuta come la “Banda dei Quattro”. Nel 1279, in una delle sue scorribande, Ghino occupò il castello di Torrita di Siena che distrusse dandolo alle fiamme. In questa occasione, durante la battaglia, a causa del ferimento di una persona, i quattro vennero ricercati per iniziativa dei conti di Santa Fiora e condannati dal tribunale di Siena la cui sentenza fu emessa dal giudice Benincasa. Il padre Tacco e lo zio Ghino furono finalmente catturati nel 1285 e giustiziati in Piazza del Campo l’anno successivo mentre, i due giovani fratelli Ghino e Turino, furono graziati perché minorenni.

Stabilitosi a Radicofani (oggi in provincia di Siena), dopo averla conquistata, Ghino riprese l’attività che era stata del padre, di furti e rapine che egli continuò con fare più “signorile” (si dice che alle sue vittime non toglieva tutto ma lasciava quel tanto per vivere) conquistandosi la fama di bandito gentiluomo: “Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circostanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri.” (Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata X, novella seconda). E questo è il concetto che di lui hanno sia Boccaccio che Dante, descrivendo il personaggio che covava l’atroce vendetta verso il giudice che aveva condannato il padre, al punto di raggiungerlo a Roma dove esercitava la sua attività di giurista, e che decapitò durante una udienza, fatto di sangue che così viene riportato: “Quiv’era l’Aretin che dalle braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, VI, 13-14). Ed è il momento che precede questo tragico episodio che è rappresentato in un quadro di Manciano (Grosseto) in cui il giovane Ghino, accompagnato dalla madre, dinanzi all’altare, fa giuramento sul Vangelo di vendicare l’uccisione del padre.

La scena si svolge all’interno di un ambiente di palazzo signorile romanico-gotico caratterizzato da arcate sorrette da colonne tortili, da un trono, da una finestra che lascia entrare la luce dal fondo che illumina anche la parete nella quale è posto l’altare in cui si vede parzialmente una tavola con rappresentata la Vergine in trono col Bambino. Le pareti sono decorate ad affresco, tecnica pittorica molto usata all’epoca.

Le due figure sono poste sopra due gradini sui quali poggia anche l’altare, ornato da pitture con figure a rilievo, parzialmente coperti da un bel tappeto a decorazioni colorate. Una lunga lancia è adagiata sugli stessi gradini e, vicino a questa, un paio di guanti.

Il giovane, in posizione eretta vestito con una giornea, calze lunghe di colore rosso, un corto mantello scuro con cappuccio ricadente sulle spalle e la spada al fianco sinistro, poggia entrambe le mani sul grande libro aperto nel leggio e ha lo sguardo fisso rivolto verso la Madonna col Bambino della tavola di fronte. La donna, che indossa una lunga veste e una sopravveste rosso scuro con maniche corte e molto ampie, porta un copricapo “a sella” chiamato hennin (da hennink=gallo), dalla forma articolata con la ‘cresta’ ricoperto da un velo bianco trasparente che le ricade delicatamente sulle spalle, tipico dell’abbigliamento delle dame del tempo. Con la mano destra tiene il libro e appoggia la sinistra sulla spalla del figlio in atteggiamento di approvazione e d’incoraggiamento verso il gesto efferato che questi, sotto giuramento, si accinge a compiere.

Tutto è apparentemente immobile ma i due personaggi sono rivelatori di un movimento interiore così intenso e profondo che ci cattura riportandoci indietro nel tempo a considerare con attenzione un fatto che, secondo la tradizione, è veramente accaduto: «scene agite teatralmente entro un contesto ambientale attentamente ricostruito; come attentamente narrate risultano le situazioni psicologiche dei singoli personaggi, la loro gestualità significante.» (Enrico Crispolti). E di una rappresentazione teatrale dà l’impressione l’apparato scenico che distingue il tema raffigurato, con gli atteggiamenti dei personaggi-attori evidenziati da una luce obliqua che ne mette bene in risalto le forme fisiche e i loro sentimenti.

Così Pietro Aldi si dimostra un vero grande pittore di storia, medievale in questo caso, ma anche di storia contemporanea come nella Sala del Risorgimento nel Palazzo Pubblico di Siena in cui dipinge L’incontro tra Giuseppe Garibaldi con Vittorio Emanuele II avvenuto a Teano nel 1860, dipinto dal pittore mancianese nel 1886. Così scrive in merito Enrico Crispolti: “Un pittore “di storia”. Da Pietro Aldi pittore di storia, a cura di Giovanni Marziali, p. 10, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1988.

Ma essere pittore “di storia” vuol dire anche assumersi un ruolo non solo di pratica di un’immaginazione corale, ma esattamente di suscitatore di mitopoiesi collettiva. Significa in certo modo celare una propria personale pulsione umorale, soggettiva, entro un’oggettività dell’organizzazione scenica narrativa (Enrico Crispolti). Non bisogna però dimenticare l’Aldi ritrattista, un genere pittorico che gli permette di penetrare, in profondità, nel carattere del personaggio oltre a percepirne gli aspetti somatici: «Ma esiste anche un altro Aldi: l’Aldi più intimo che si esprime nel ritratto, nel bozzetto, nel disegno rapido neppure così preciso ed eloquente. Ed è forse l’Aldi che ci appartiene di più.» (Lilio Niccolai, Il ritratto nell’opera di Pietro Aldi).

L’artista maremmano dimostra tutte le sue straordinarie capacità disegnative costruendo le forme con verismo, precisione di segno e perfezione esecutiva. La sua facilità di dominare lo spazio lo pone in una posizione di rilievo nell’ambiente artistico di derivazione senese, scuola che lo vide come personalità di spicco nell’alunnato compiuto sotto Luigi Mussini (Berlino, 1813 – Firenze 1888), allora insegnante all’Accademia di questa città toscana.

Ed è proprio lo studio col Mussini che fa echeggiare nella sua pittura certi valori del “purismo” di Tommaso Minardi (Faenza, 1787 – Roma, 1871) e, prima ancora, dei “nazareni” tedeschi di Friedrich Overbeck (Lubecca, 1789 – Roma, 1869), questi ultimi trasferiti a Roma per cercare insieme, vivendo in comunità, nuove vie nella pittura in contrapposizione con gli insegnamenti presso l’Accademia di Vienna. Le ricerche di questi movimenti erano rivolte, ritornando indietro nel tempo, verso la cultura medievale e del primo rinascimento fino a Raffaello, impregnati da una forte componente religiosa, che gioca un ruolo significativo così come nelle correnti dei “primitivi” in Francia e dei “preraffaelliti” in Inghilterra. È da sottolineare, inoltre, anche una certa influenza della pittura francese di Jean-Auguste-Dominique Ingres caratterizzata dalla ricerca di una forma limpida ottenuta con un tratto sicuro, un colore tendenzialmente caldo e una luce che fa da intermediario tra la forma e lo spazio che la contiene, in una straordinaria sintesi.

Il quadro, un olio su tela delle dimensioni di cm 124×96, firmato in basso a sinistra: “P. Aldi dip. 1872”, si trovava nei locali del Comune conservata, tra le altre opere e oggi esposta in una sala del Comune stesso, in cui è rappresentato Il Giuramento di Ghino di Tacco, realizzata dal pittore maremmano Pietro Aldi (Manciano, Grosseto, 1852 – ivi, 1888), morto a soli trentasei anni d’età, si trova attualmente in condizioni di conservazione decisamente ottime.

Giombattista Corallo

 

Il giuramento di Ghino di Tacco - Pietro Aldi - 1872

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